di Rossella Muroni, Sociologa ed Ecologista
Il Pniec conferma “gli obiettivi raggiunti nella prima proposta trasmessa a giugno 2023, superando in alcuni casi anche i target comunitari, in particolare sulle energie rinnovabili”. L’approccio del Piano – stando a quanto riferito dal Ministero dell’Ambiente – si basa su un approccio “realistico e tecnologicamente neutro”. Il Piano contempla anche il nucleare, con uno scenario energetico al 2050 in cui si profila un contributo dell’11% per l’energia elettrica (con possibilità di arrivare al 22%). Anche se, “per la prima volta”, c’è spazio per “una specifica sezione dedicata ai lavori della Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile”, l’energia nucleare presa in considerazione è sia quella da fissione, calcolando una decina di anni da oggi, sia quella da fusione, per la quale i tempi sono più lunghi.
Naturalmente, spazio alle rinnovabili, con un target di 131 Gigawatt (GW) al 2030, e con il solare che avrà un ruolo da protagonista con quasi 80 GW: circa 28 dall’eolico, 19 dall’idrico, oltre 3 dalle bioenergie e 1 dal geotermico. Ci sono poi il biometano e l’idrogeno, i biocarburanti per contribuire alla decarbonizzazione del parco auto, auto elettriche, riduzione mobilità privata, cattura e stoccaggio di CO2, ristrutturazioni edilizie, elettrificazione dei consumi finali.
Sul versante della sicurezza energetica, si parla di “netta riduzione della dipendenza da altri Paesi” grazie alla “diversificazione dell’approvvigionamento” e alla “pianificazione di nuove infrastrutture e interconnessioni”. Inoltre, il Pniec si concentra sugli obiettivi nazionali di ricerca, sviluppo e innovazione per “accelerare l’introduzione sul mercato delle tecnologie necessarie a centrare i target definiti dal Green Deal” e per “rafforzare la competitività dell’industria nazionale”.
Uno strumento che traccia con grande pragmatismo la nostra strada energetica e climatica, superando approcci velleitari del passato: così lo ha definito il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin. Un Piano che il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica sostiene di aver condiviso con i protagonisti della transizione e che non nasconde i passi ancora necessari per colmare alcuni gap, ma si concentra sulle grandi opportunità derivanti dallo sviluppo di tutte le fonti, senza preclusioni. Per elaborare il Piano si è lavorato insieme con altri ministeri (Economia, Infrastrutture, Imprese e Made in Italy, Università e ricerca, Agricoltura e sovranità alimentare e forestale), con il supporto tecnico del Gestore dei servizi energetici (Gse) e dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), e con la collaborazione del Politecnico di Torino e di Milano.
Colpisce sinceramente la disinvoltura con la quale, nell’attuale dibattito sul ritorno al nucleare e quindi nel testo del Pniec, si trascurino, o addirittura si neghino, impatti e rischi ambientali delle nuove centrali nucleari a fissione. Così come poco o nulla si dice sul fatto che il ritorno al nucleare, ancora di più per un Paese che ne è uscito da molti anni, avrebbe un costo elevatissimo. I pochi nuovi reattori realizzati hanno comportato costi di gran lunga superiori a quelli previsti dal progetto iniziale. La costruzione di centrali nucleari è ormai talmente costosa da richiedere ovunque il sostegno dello Stato: in Francia la società che le costruisce e le gestisce, fortemente indebitata, è stata resa al 100% pubblica. La preoccupazione più forte però è legata al fatto che la cosiddetta neutralità tecnologica impedisca quell’accelerazione necessaria sulle fonti rinnovabili e sull’installazione degli impianti.
Un sondaggio Ipsos per Legambiente rivela che solo il 54% degli italiani vuole incentivare le fonti pulite. E il 75% è contrario al nucleare, che ha zero emissioni. Si moltiplicano le proteste popolari contro gli impianti, e la Sardegna ha approvato una moratoria di 18 mesi per tutte le nuove fonti rinnovabili. Il decreto Aree idonee è stato emanato il 14 giugno scorso dal MASE di concerto con i Ministeri di Cultura e Agricoltura: al suo interno, da un lato si stabiliscono i criteri per l’individuazione delle aree per le rinnovabili, dall’altro si fissano le quote di nuova potenza green che ogni Regione deve installare anno per anno, fino al 2030.
“Così però – sottolineano le maggiori associazioni ambientaliste – si lascia carta bianca alle Regioni nella selezione delle aree idonee, di quelle non idonee e di quelle ordinarie”. Risultato: il quadro autorizzativo per le rinnovabili diventa ancor più complicato senza una cornice di principi omogenei capaci di indirizzare la successiva attività di selezione delle aree, da effettuarsi con leggi regionali. L’esito di questo percorso, si teme, saranno leggi regionali disomogenee, che complicheranno ulteriormente il quadro regolatorio per le rinnovabili, già messo a durissima prova. Insomma, tra ritorno al nucleare e vita dura per le rinnovabili, il futuro energetico del Paese appare ancora confuso e soprattutto non in linea con i target europei.
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