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Fast Fashion: una moda insostenibile

03 Novembre, 2023

di Rossella MuroniSociologa ed Ecologista

Il settore della moda per il nostro Paese ha sempre rappresentato denaro, immagine, successo.  Un giro d’affari pari a 82 miliardi di euro con +21 per cento sul 2019. A trainare i ricavi sono le vendite all’estero, in accelerazione del 24 per cento sul 2021. In progressione anche gli investimenti che dovrebbero attestarsi a un +35 per cento. Per il 2023 si prevede un ulteriore incremento del giro d’affari dell’8 per cento che porterebbe l’aggregato delle maggiori aziende moda Italia a sfiorare i 90 miliardi, all’interno di uno scenario in rallentamento macroeconomico.

 

Tutto è glamour ciò che luccica dunque? Visto che accanto a questi numeri, e al netto dell’impegno volenteroso che molti marchi stanno facendo per abbattere il proprio impatto sull’ecosistema, esiste e spopola anche la cosiddetta “fast fashion”, quella che costa di meno e che permette a tutti di essere in linea con le tendenze. Ma la “moda veloce” porta a un aumento della quantità di indumenti prodotti e gettati via (quindi di rifiuti), e che ha effetti importanti sull’ambiente e sulle risorse naturali, tanto che una maglietta arriva a ‘costare’ 2.700 litri d’acqua.

 

Impatto ambientale e consumo di risorse ma a un prezzo accessibile: nella “Fast fashion” credono molte aziende, e dai grandi marchi alle catene di franchising (anche online) si moltiplicano quelle che puntano su questo modello, chiamato anche “pronto moda”, che riesce a produrre velocemente e a mettere immediatamente in vendita quello che generalmente verrebbe fatto in 18-24 mesi. Tra il 2000 e il 2020, in Europa la produzione di abbigliamento è raddoppiata, passando da 58 milioni di tonnellate a 109 milioni di tonnellate, con la previsione di arrivare a 145 milioni nel 2030; mentre l’utilizzo è diminuito del 36%. Con l’obiettivo di ridurre gli sprechi tessili (dal momento che questo tipo di indumenti si prestano a essere usati per poco) – nell’ambito della più ampia strategia del Green deal – è intervenuta anche l’Unione europea con il Piano ad hoc dedicato al raggiungimento di una piena economia circolare al 2050.

 

L’impatto ambientale del settore nell’Ue – secondo l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) – viene stimato in un consumo medio di prodotti tessili per persona all’anno pari per esempio a 400 metri quadrati di terreno, 9 metri cubi di acqua, 391 chilogrammi di materie prime, con un’impronta di carbonio di 270 kg. Un effetto importante lo ha soprattutto sul consumo di acqua: in base alle stime “per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrono 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo”. Inoltre “la produzione tessile è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile“. A questo bisogna aggiungere che il lavaggio dei capi sintetici rilascia “ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari: un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700mila fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare”.

 

L’industria della moda dunque è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Sempre secondo l’Agenzia europea dell’ambiente “gli acquisti di prodotti tessili nell’Ue nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona“. Tradotto significa che “i prodotti tessili consumati nell’Ue hanno prodotto emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate”.

 

In Italia un contributo all’ambizione europea di ridurre gli sprechi nel settore, e quindi di combattere la parte impattante della “Fast fashion”, arriva dal distretto tessile di Prato: «È da oltre un secolo che in quest’area recuperiamo e ricicliamo prodotti tessili – osserva a LaPresse Fabrizio Tesi, presidente di Astri (Associazione tessile riciclato italiana) – abbiamo una metà di imprese che lavorano nel tessile (principalmente italiane) e un’altra metà impegnata nell’abbigliamento (per la maggior parte cinesi): dalla collaborazione che mettiamo in pratica, creiamo una filiera del recupero e del riciclo a basso impatto ambientale, oltre che a km zero». Per il presidente dell’Associazione – nata nel 2017 e che riunisce oltre 7mila aziende e occupa 42mila addetti – «oggi c’è un contesto in cui il recupero e il riciclo non sono soltanto un aiuto ma sono anche una necessità, soprattutto sotto il profilo ambientale. In questo senso – spiega Tesi – quello di Prato è un modello virtuoso da replicare, soprattutto tenendo presente che la differenziata sarà un obbligo per i rifiuti tessili dal 2025 e che si impone la scelta di creare hub del genere in tutta Europa».

 

E se sul fronte ambientale è “evidente” il contributo fornito da un distretto come questo (si viaggia sulle 150mila tonnellate di prodotti recuperati e riciclati all’anno), sul versante economico – dice Tesi – «stiamo rallentando, per esempio sull’end of waste c’è ancora troppa burocrazia, e reticenza da parte della politica nel sostenere questo settore».

 


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